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“METEORA” | INTERVISTA A VERONICA BENEDETTI

Giunta al suo quinto incontro, Unframed vede concludersi gli incontri relativi alla prima selezione di artisti presentati a dicembre 2021, in occasione dell’inaugurazione della rassegna. Il salotto dedicato alla fotografia emergente si apre alla dimensione off camera grazie allo studio che la valdostana Veronica Benedetti porta avanti con il suo progetto “Meteora”, una serie di immagini che ci raccontano di come le relazioni interpersonali possono a tutti gli effetti essere assimilabili a delle vere e proprie reazioni chimiche.

Restando sulla scia dell’approccio intimista e introspettivo di Cecilia Ripesi, in questo caso l’indagine volge ancor più in profondità fino a raggiunere l’essenza molecolare della fotografia, attraverso una paziente sperimentazione analogica che, in assenza di un corpo macchina, sfrutta unicamente l’impiego di supporti fotosensibili e una serie di reagenti molto particolari.

Testo dell’intervista

Questo titolo – Meteora – mi ha affascinato tanto perché ci proietta in una dimensione lontanissima, nell’atmosfera, ma in realtà ci parla dei nostri microcosmi. Quindi ti chiedo: da dove arriva questo corpo celeste? Cosa ha messo in luce il fuoco che ha generato il suo passaggio? Cosa ha lasciato?

Il progetto Meteora nasce da un’esperienza personale, proviene da una dimensione inconscia; è un tentativo di dare forma a delle emozioni che stavo vivendo in un particolare periodo: il lockdown, la convivenza forzata e la trasformazione di una relazione. Un periodo intenso – di equilibri incerti e forti scosse emotive – che mi ha portato a riflettere sulla mia personale resistenza e sulla resilienza che un individuo mette in gioco quando si ritrova ad affrontare un ostacolo, una situazione provante o dolorosa.

La meteora è quindi intesa come una metafora della vita relazionale, in cui mi sono immaginata che ognuno di noi ha una visione, ha il proprio mondo e ha davanti agli occhi un cielo stellato, calmo e piacevole perché è composto dalla nostra visione individuale. Nel momento in cui si decide di condividere il proprio panorama con un altro individuo, come ad esempio in una relazione di coppia, non è sempre detto che la somma degli elementi aggiunti dall’altra persona generino un risultato altrettanto positivo e piacevole.

Con quest’affermazione mi riferisco ai momenti bui di una relazione, quando non si va d’accordo, quando gli equilibri vengono squarciati da un litigio, un’incomprensione, un’incompatibilità. Quindi mi sono immaginata questo corpo celeste che arriva e sbaraglia tutto quanto, in maniera inaspettata e improvvisa, come una pioggia di meteore che lascia dietro di sé delle tracce più o meno evidenti, alcune si dissolvono prima ancora di lasciare un segno, altre volte invece sono più importanti e quindi arrecano un danno e lasciano una traccia. La conseguenza di questo evento traumatico porta, nel migliore dei casi, a una collaborazione tra le parti che condividono l’intento di ricostruire, di riavvicinarsi, di rilegarsi, di resistere. Proprio su questa parola – “resistere” – gira tutto il mio ragionamento.

Per me Meteora è uno studio, chiaramente non troppo scientifico, sulla reazione chimica tra le persone; un’indagine su come noi reagiamo a contatto con gli altri, in particolare nelle nostre relazioni più intime.

Come hai realizzato le immagini? Da dove è nata l’idea di questa resa così astratta e materica?

Volevo parlare di questa incompatibilità, di questa mancanza di comunicazione e di questa cosa invisibile, quindi ho iniziato con dei tentativi di fotografia di still life, ma mi sono resa conto che per parlare di emozioni mi era necessario approcciare il tema in maniera più astratta, meno visibile e anche meno immediata. Proprio perché questo discorso era per me in un certo senso nuovo, quindi una tematica un po’ diversa da indagare ma anche per quello che stavo vivendo – per tutti è stata un’esperienza nuova e ognuno l’ha vissuta in maniera diversa. Quindi ho deciso di andare oltre e sconfinare con la mia pratica artistica prettamente fotografica in un territorio mai esplorato prima, quello off-camera, che esula l’utilizzo di un apparecchio fotografico al fine di ottenere di un’immagine.

Meteora_1 - Veronica Benedetti

Mi sono lasciata sedurre nelle mie ricerche e ispirare liberamente dal maestro Pierre Cordier, riconosciuto come l’inventore dei chimigrammi, questa tecnica che ho utilizzato e che sta sul confine, è borderline in quanto simile alla pittura ma prevede l’utilizzo di altri strumenti: la tela è sostituita dalla carta fotosensibile e l’acrilico dai resistenti. Questi resistenti possono essere potenzialmente qualunque cosa, ingredienti di uso quotidiano come il burro, l’olio, l’uovo, la crema, ecc. È un processo sperimentale e anche questa parte è molto affascinante e si addiceva pienamente al mio tema; quindi le combinazioni sono pressoché infinite, il risultato varia in base a molteplici fattori, come il tempo di applicazione concesso ai resistenti per agire sul supporto. Di conseguenza anche la reazione chimica varia, in base al luogo in cui ciò avviene, la luce diversa, l’intensità, lo strumento usato per l’applicazione. È come un codice, un linguaggio: sono tante parole che se messe in un certo ordine generano un certo tipo di risposta.

Un altro aspetto affascinante è l’unicità del chimigramma, che si presenta come un’opera unica e irripetibile perché sebbene si ripetano le medesime azioni, il risultato non sarà mai uguale; proprio come nelle relazioni interpersonali, in cui ci sono innumerevoli fattori che determinano un risultato.

E la relazione con questa sperimentazione analogica com’è stata?

Un nuovo approccio alla fotografia, un’altra sfumatura. Sono molto contenta del risultato, proprio perché è il processo di per sé a essere interessante; si può imparare molto. Poi il fatto che sia un lavoro manuale, quindi realizzare con le proprie mani e operare delle scelte. È molto diverso dal digitale, perché qui non c’è modo di tornare indietro se non ricominciando da capo. Ho riavuto lo stupore, quel brivido che forse avevo un po’ perso lavorando tanto con la fotografia digitale – che è il mio mestiere di cui sono felicissima, però è sempre necessario cercare del nuovo oltre a questo mezzo molto preciso, immediato e replicabile.

So che hai iniziato a esporre questo progetto circa un anno fa; ora questa meteora che giro sta facendo?

Dalla sua iniziale creazione in camera oscura, al buio, Meteora ora sta girando molto e con mia grande gioia ha avuto una risposta positiva. La reazione del pubblico ha fatto sì che il lavoro fosse esposto inizialmente in Italia, poi a Praga, a Roma e dal 23 al 30 di agosto sarà esposto a New York, ad Agora Gallery…e quindi sì, diciamo che ora la meteora viaggia lontano.

Stai ideando o lavorando a qualche altro progetto in questo momento?

Fin troppi, non mi fermo mai. Sono sempre più sulla scia della sperimentazione analogica perché sempre più affascinata dall’imprevedibile, sempre più attenta all’errore, a quella cosa che prima scartavo – proprio perché l’errore è considerato sbagliato – ma ora la mia indagine verte proprio sul cercare di capire come replicare l’errore inteso come un uscire un po’ dai binari.

Meteora - Veronica Benedetti

Prima di andare fuori binario però, se guardassi indietro al tuo personale viaggio, quali riferimenti o ispirazioni ritrovi lungo il percorso?

Sono attratta da tantissime cose che vanno oltre la fotografia. Un autore in particolare non ce l’ho, riconosco in tanti un’affinità, un particolare incanto in ciò che fanno e ne vengo attratta perché in qualche modo mi parlano attraverso la tematica che affrontano e la tecnica che utilizzano.

Per citarne alcuni, partendo dagli inizi e dalla fotografia, Francesca Woodman ha generato in me un vuoto e poi tante domande che ho cercato di indagare con la sua stessa metodologia e quindi con l’autoritratto e con il corpo; una ricerca sull’identità e sulla rappresentazione del sé. Un percorso molto bello e introspettivo, che suggerisco perché farsi delle domane e guardarsi dall’esterno è un ottimo modo.

Chi altro? Alberto Burri e l’utilizzo che ha fatto della materia; la determinazione nella ricerca del colore svolta da Yves Klein, o ancora i paesaggi di Franco Fontana; sono per me tutte ispirazioni di forma e di pensiero.

Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto e quale, invece, daresti tu a chi desidera mettersi dietro l’obiettivo?

Sperimentare. Sperimentare per conoscere sé stessi e i propri gusti, per divertirsi, trovare la propria voce ed esprimere se stessi; comprendere meglio chi siamo e in un certo senso capire anche qual è la nostra missione su questa Terra.

Una grande lezione che ho imparato è che per fare ciò bisogna avere coraggio, credere in sé stessi. Quindi il mio consiglio è quello di fare – prima di tutto – e poi soprattutto condividere, lasciare spazio agli altri di entrare, sbirciare, di giudicare e di consigliare e non temere il giudizio.

Veronica Bendetti

Nata e cresciuta in Valsavarenche dal 1992.

Dal taglio introspettivo, la sua ricerca esplora l’identità, la memoria e il rapporto tra uomo e spazio. Vive e lavora a Milano.

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